sabato 12 gennaio 2013

Un primo assaggio del libro!Ciao a tutti! Ed ecco per voi lettori un primo racconto sulle emozioni vermezzesi legate alla Cascina Grande, tra storia e ricordo...

CASCINA GRANDE


E’ l’inverno del 1941, nel giorno di San Martino la famiglia Tessera si accinge al “San Michee”, il trasloco da cascina a cascina per un nuovo contratto di lavoro del capofamiglia, l’Ambrogio, specializzato trattorista.

L’Ernestina, la primogenita, ha nove anni e vive con preoccupazione l’evento: cosa troverà nel nuovo posto, come sarà quel paese che gli dicono chiamarsi Vermezzo, che genere di compagni troverà nella nuova scuola dove dovrà frequentare la quarta e la quinta? Pensieri che non ha la sua sorellina, la Lidia, che ha solo sei mesi. Nessuna delle due sa ancora che quel paese, Vermezz, sarà la loro dimora per tutti gli anni a venire, dove si svilupperà la loro intera esistenza.

La famiglia arriva quindi, quel giorno, a Cascina Grande, non molto distante dal centro abitato: una strada dritta e bianca, che corre tra campi e rogge, la conduce a quell’ingresso imponente e merlato, oltre il quale sorgono splendidi edifici in stile sforzesco. La cascina è grandissima, ci vivono e lavorano un centinaio di anime.

La mamma Erminia prepara e rassetta la nuova casa, il papà intanto prende confidenza col “Landini”, il trattore sul quale passerà lunghe giornate per sfamare la famiglia.
Oggi Ernestina è una splendida signora di ottant’anni, cui luccicano gli occhi mentre i ricordi si affollano tutti insieme nella sua mente. La Lidia, sempreverde sgarzulìna, l’aiuta a metterli in fila, a non confondere i nomi e le ricorrenze. Tutte e due quasi incredule di come, aprendo lo scrigno dei ricordi, questi ne fuoriescano freschi e quasi intatti, a distanza di vari decenni.

“Il fittavol dell’epoca era il Ticozzi, una brava persona. In cascina risiedevano circa 17 famiglie alcune delle quali, ancora oggi, fanno parte del paese, come i Pastori, i Bragalini, i Tesa con due distinti nuclei, i Bonetti, i Passoni. E poi c’erano i Gardini, Lattuada, Gramegna, Andreoni, Barani, Giorgi e Mariani e altre che adess me regordi nò”.

L’Ernestina va a scuola, fino alla quinta “che poeu gh’era pù nient, occorreva andare fuori paese” e così si rivolge al fattore, un giorno che i braccianti si accingevano ad andare nei campi e gli dice che anche lei vuole lavorare, che si sente pronta. Lui la guarda sorridendo e le dice una cosa che lei non scorderà mai più: “tosa, se prendi in mano la zappa ora non la lascerai per tutta la vita”. Ma la prende come bracciante e oggi è lei a sorridere, notando che era vero per i tempi di allora, ma non per quelli che seguirono vent’anni più tardi.

La dura vita contadina a Cascina Grande è scandita, raramente, da momenti di riposo e divertimento. Come il giorno dell’Ascensione “el Dì de l’Ascénsa”, festa grande in cascina con cerimonia davanti al dipinto della Madonna, il Don Silvestro (Beneggi) che benediva le campagne e qualcosa in più da mangiare prima del ballo con la fisarmonica dell’Ernesto Pastori, che “el sonava a oreggia, ma l’era bravo weh?” Più avanti arriverà il progresso, e la fisarmonica viene sostituita dal grammofono della Giovannina Lattuada e “sotta a ballà!”.

O come d’inverno, nel periodo dell’uccisione del maiale, quando tutte le famiglie a turno si passano il trespolo cui appendere l’animale, partecipano al grande lavoro di ciascun nucleo nella preparazione delle carni per la conservazione e l’insaccamento, con l’immancabile cena collettiva finale presso ciascuna famiglia in cui tutti, grandi e piccoli, sono chiamati a godere della momentanea abbondanza.

La stagione invernale vede le donne ferme col lavoro nei campi mentre per gli uomini ,“i salariaa”, si riducono le ore di occupazione in conformità con quelle di luce della giornata “faseven la romanella, ona tirada unica dai noef de la mattina ai trè del posdisnaa”. E così anche il pasto del mezzogiorno diventa un tutt’uno con la cena, “inscì gh’éra un poo de risparmi”. Nel tardo pomeriggio si lascia spegnere la stufa nelle case contadine, “la legna l’era minga tanta de trasà”, e tutti si ritrovano nella stalla, l’unico posto ove trovare un po’ di tepore e godere della reciproca compagnia. Le donne “faseven i scalfìnn”con i quattro aghi da maglia che abilmente manipolano tra le mani, “e i calcagn me vegneven mai ben” ridacchia la Lidia ricordando le grezze calze di lana che si producevano per difendersi dai geloni. Gli uomini giocano a carte, fumano il toscano e raccontano le vecchie storie all’uditorio attento dei bambini. Ma i lunghi mesi di forzato riposo saranno compensati nella bella stagione da giornate di infinite ore con la schiena ricurva sui campi, perché “i or d’on ann che se doveva fà per contratt cont el padron eren quej, e quej se faseven, cara ti”.

C’era un gran bel forno per il pane in cascina, e anche nei periodi più grami come quello della seconda guerra mondiale, c’era sempre il modo di cuocerne un po’ per le famiglie. Era in funzione anche una pila per la lavorazione del riso, una delle grandi risorse della produzione agricola della tenuta, e grazie a questo impianto “nissun a Cassina Granda l’ha patii la famm in temp de guerra, disemm insomma che se stava nò mal”.

Il borsellino era scarno per tutti, ma appena si poteva si usciva in cortile per l’arrivo degli ambulanti: il prestinaio di Castelletto, il Milani di Zelo o il Cavestri che portavano frutta e drogheria, l’oliee di Casorate che portava il preziosissimo olio d’oliva, el patatee che decantava a gran voce la bontà delle sue patate. Momenti di felicità per i bambini che aspettavano una caramella o un bon bon.

La domenica era un giorno di stacco, anche se non era del tutto festivo. Al mattino si doveva lavorare nei campi ed accudire il bestiame e per questo motivo si andava a Messa Prima, alle sei del mattino. Anche le due sorelline seguivano a piedi la mamma fino alla chiesa ed assolvevano al loro dovere festivo, “cont el Don Silvester se podeva minga sgarà…”.Dopo pranzo gli uomini e i giovanotti, in camicia bianca e l’immancabile cappello in testa, andavano tutti in gruppo in paese, all’osteria, dove passavano le poche ore di riposo col bicchiere di vino e giocando a carte “riveven a cà tucc on poo in gaijnna” ricorda ridacchiando l’Ernestina, ripensando al padre. Saranno tra quelli che negli anni successivi edificheranno con le proprie mani in centro paese“la Coperativa”,col gioco delle bocce, ma questa è un’altra storia, che racconteremo.

Dopo la guerra, anche Cascina Grande vive le combattute stagioni del referendum monarchia/repubblica, delle prime elezioni e della rinascita democratica dell’Italia. In paese quel considerevole agglomerato di contadini era soprannominato “La Stalingrado di Vermezzo”, per via del fatto che “eren tucc socialista e comunista a Cassina Granda”. Qualche anno più tardi, quando in canonica si consumerà il tragico omicidio del parroco, Don Silvestro Beneggi, voci maligne in paese solleveranno il dubbio che possa essere opera “de quej ross de la Cassina Granda”, e la tenuta sarà invasa da giornalisti e fotoreporter a caccia di notizie. Anche negli anni successivi le cose non cambieranno, tanto è vero che in occasione delle varie elezioni comunali, quando alla domenica pomeriggio dalla cascina arrivavano in massa al seggio elettorale, il presidente “che l’éra semper er scior Piero Capelli”, noto esponente democristiano, tirava un gran sospiro e sconsolato notava “ecco, ghe semm….gh’é rivaa Stalingrad, l’é finida”.

Ernestina e Lidia ricordano con un misto di angoscia ed orgoglio la stagione dei grandi scioperi dell’agricoltura negli anni che vanno dal 1949 al 1953, quando anche la loro famiglia insieme a tutte le altre incrocia le braccia a sostegno della protesta per la riforma agraria e gli aumenti salariali, sotto la guida della Camera del Lavoro di Abbiategrasso nella figura “del Bigoni, se me regordi ben”.I giorni di astensione dal lavoro diventano in alcuni casi anche oltre 40 continuativi ed innescano enormi dissapori tra paisan e proprietari terrieri. “Hann fina faa rivaa i crumiri da Brescia. Eh, l’é stada dura assee quella volta lì”.

Erano tanti i giovani in cascina. Una masnada di giovanotti e signorinelle nel pieno della gioventù e dei turbamenti dei primi amori.
Anche l’Ernestina trova il suo grande amore a Cascina Grande. I suoi occhi si inumidiscono mentre racconta del suo Carluccio, il Carlo Tesa, col quale si lega giovanissima negli anni cupi del dopoguerra e che sposerà, dopo otto anni di fidanzamento “ma foeura de cà eh?”, in un giorno di maggio del ’56. “Cinquant’anni insieme” non manca di sottolineare commossa.

Il matrimonio è l’occasione per l’Ernestina di lasciare la cascina, venendo ad abitare in paese, nella casa in piazza “quella cont i basej che g’hè an’mò adess”, ed anche di cambiare mestiere, sfatando così la premonizione del fattore di tanti anni prima. Il Carluccio andrà in città “a Milan” in fabbrica e lei farà la camiciaia ma tornerà alla campagna per diversi anni, nella stagione della monda del riso, facendo la mondina. Quando negli anni sessanta arrivano le fabbriche a Vermezzo, nel territorio fra Vermezzo e Zelo, diventerà operaia alla Sica dal cui ingresso potrà sempre vedere dietro ai pioppi, sullo sfondo dei campi, la sagoma inconfondibile della Cascina Grande.

Sempre meno famiglie abiteranno quelle mura nei decenni successivi. La conduzione dell’attività tornerà alla famiglia Capelli, il cui esponente più importante, il Cav. Ovidio Capelli, l’aveva resa grande ed assai importante nei decenni precedenti l’ultima guerra. Oggi è abitata solo dalla proprietà, non è facilmente visitabile e conserva ancora tutto il suo fascino di dimora sui generis.

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